Marco Cardinalini, Consigliere Generale di Confindustria e Consigliere del Gruppo Tessile Abbigliamento Umbria, nasce da una famiglia di imprenditori che fondarono la Cardinalini & C. Spa nel 1963. Ancor prima dell’ufficializzazione del cambio generazionale, mediante il Patto di famiglia nel 2011, già nel 2004 Marco subentrava nell’azienda con la gestione di un nuovo cliente: una nota griffe francese che costituisce ancora oggi il principale cliente della Cardinalini & C. Spa. L’ingresso in punta di piedi nella Maison Parigina, il confronto con un mondo giovane e dinamico, con stilisti e persone chiave in ambito aziendale, molti delle quali al di sotto dei 40 anni, hanno consentito a Marco di fare della sua giovane età un punto di forza, un trampolino per relazionarsi e confrontarsi “alla pari” con altri imprenditori.
Dall’intervista emerge un concetto di Made in Italy legato all’Italia come luogo di progettazione e produzione in cui la mano è l’elemento centrale. La mano è prosecuzione della mente è detentrice del sapere, e come parte del corpo è plasmatrice di quella conoscenza. Il modo migliore per raccontare il Made in Italy è far vedere come quelle mani lavorano, come il prodotto è stato fatto.
Le piccole aziende, infatti, sono ancora oggi realtà bellissime, custodi di sapere e tradizioni, tuttavia fanno fatica ad agire nel mondo attuale in quanto mancano delle risorse e di una mentalità necessaria per divenire innovative ed internazionali. La collaborazione e la creazione di partnership è divenuta oggi una determinante per il successo. La condivisione di competenze, risorse, know-how può portare solo ad un accrescimento. Da questo punto di vista, il distretto gioca un ruolo essenziale.
A tal proposito il distretto umbro, per quanto caratterizzato da una serie di difficoltà quali l’isolamento geografico, ha saputo puntare sulle sue eccellenze, creando legami lungo tutta la filiera del tessile. Occorre tornare a valorizzare il territorio che è il bacino di risorse e competenze da cui tutto parte.
La chiave di volta è la qualità del Made in Italy. Attuare una strategia di contenimento dei costi forzata, volendo al contempo mantenere il marchio Made in Italy, si rivela controproducente: si troveranno sempre concorrenti più competitivi e l’immagine del prodotto verrà allo stesso tempo intaccata. Esempio sono le molte aziende che in passato avevano delocalizzato la produzione e hanno deciso oggi di tornare in Italia dove non trovano più gli attori con i quali erano solite operare, per la chiusura di molte piccole imprese all’interno dei loro distretti.
A tal fine la formazione delle nuove generazioni è un elemento chiave: bisogna tornare a trasmettere il “sapere” e il “saper fare” puntando su nuovi giovani talenti italiani.
- Cosa significa per lei “Made in Italy”?
Si può delocalizzare la produzione in qualsiasi parte del mondo, ma non si può delocalizzare la trasmissione del sapere e la messa in opera di quel sapere. Quello che fa la differenza sono le “persone”, la tradizione di quelle mani che lavorano e creano il prodotto. Il grande potenziale italiano è la tradizione e il gusto del bello, dei quali la nostra cultura è pregna. Acquistare un capo Made in Italy è acquistare un po’ di quella tradizione, è come se si potesse far proprio un pezzetto della “dolce vita”. Per me, quindi, il Made in Italy è un prodotto, un manufatto che riesce a trasmettere questi valori al consumatore finale.
- La sua azienda ha deciso di mantenere la produzione in Italia?
Nel 1989, spinti dalla politica di contenimento dei prezzi di un nostro cliente, abbiamo delocalizzato la sua produzione in Ungheria. Dopo 5 anni ci siamo resi conto che la ricerca del ribasso dei prezzi non ci apparteneva perché andava a discapito di quei valori come tradizione e qualità che sono a fondamento della nostra azienda, e così abbiamo deciso di rientrare in Italia. Abbiamo perso il cliente ma non la nostra identità: è stata una scelta difficile ma alla fine ci ha premiati.
Inoltre, mantenere la produzione in Italia ci ha dato la possibilità di sviluppare nuove competenze. Infatti, nella nostra realtà umbra la mia azienda è situata in un grandissimo distretto di maglieria, ma non di confezionisti, quindi in questo scenario abbiamo dovuto interiorizzare tante competenze.
Questo se da un lato ha costituito uno svantaggio perché l’intero ciclo produttivo è all’interno dell’azienda, con un costo organizzativo molto elevato, per converso è un fattore positivo sia come stimolo all’acquisizione costante di nuove competenze, sia nei confronti del cliente. Il cliente infatti trova in noi, in un’unica azienda, la possibilità di trasformare il disegno e l’ispirazione di uno stilista in un prodotto reale.
Pur nell’autonomia produttiva, rimane però fondamentale la collaborazione e il legame tra i vari anelli della filiera produttiva, perché un buon prodotto è possibile solo se si hanno materie prime di altissimo livello, dalla filatura alla tintura, alla tessitura. E questo è il vero fattore competitivo del Made in Italy: una filiera ben salda, con degli anelli che si aiutano tra di loro.
In questa ottica anche noi ultimamente abbiamo potenziato la collaborazione con i fornitori, con i quali stiamo ideando nuovi articoli e siamo alla ricerca di nuovi materiali e nuove strutture, in linea con la tendenza attuale del mercato a mixare tra di loro più materiali. Da qui nasce la collaborazione con pelletterie, maglifici e studi di progettazione, che per noi produttori di jersey costituisce una fonte d’informazioni, di confronto e condivisione del know-how.
- Cosa pensa dell’attuale processo di reshoring che alcune aziende italiane stanno implementando?
Molte aziende sono rientrate in Italia stimolate da un consumatore attento, non disposto a comprare un prodotto con etichetta “Made in China”. Tuttavia queste aziende al loro rientro hanno trovato un panorama diverso, frutto di una crisi che dal 2000 ha condotto molte piccole imprese alla chiusura. In tal modo è andato perso molto dell’artigianalità, ed insieme ad esso importanti competenze, strategiche per la produzione “Made in Italy”.
- Come è possibile proteggere e sviluppare le competenze artigianali che caratterizzano la produzione Made in Italy?
Come sempre si deve ripartire dalla base, dalle nuove generazioni. Dobbiamo ricominciare ad avere stilisti ‘Made in Italy’. Prima c’erano Armani, Valentino, che hanno permesso di creare il mito della moda italiana, oggi gli ultimi stilisti italiani sono Dolce & Gabbana e Alessandro Michele (Gucci). Bisogna quindi ripartire dalla formazione, dal potenziamento delle scuole, per poter dare più chance a stilisti emergenti che conoscono il prodotto italiano.
E’ un po’ l’operazione che è stata fatta con il “Cashmere District Award”, dove sono stati portati in Umbria gli aspiranti stilisti della “Central Saint Martins” che hanno lavorato con le aziende italiane e con il cashmere, mettendoci tutta la loro creatività, andando fuori dagli schemi, pensando ad un cashmere misto a polimeri, ad esempio.
Magari se questi stilisti avranno l’opportunità di emergere, ricordandosi dell’esperienza umbra, verranno a sviluppare parte delle loro collezioni con il cashmere prodotto nella mia regione!
- Qual è il livello di consapevolezza del consumatore (italiano vs straniero)? Come si può rendere più oggettivo il percepito della qualità e della creatività Made in Italy?
Le fasce alte dei consumatori si distinguono proprio per la consapevolezza, a prescindere che sia un consumatore italiano o straniero. Anzi quello che si nota oggi, paradossalmente, è che sono sempre più gli stranieri a parlare e a ricercare il made in Italy. Ad esempio, alcuni dei miei clienti hanno ideato delle linee Asian fit, con vestibilità studiata per i mercati asiatici.
Chi sa apprezzare il Made in Italy ha piena consapevolezza della cultura che è dietro quel prodotto, sa riconoscere un vero cashmere da un misto viscosa.
Non a caso le più grandi griffe non vogliono loghi sui loro capi d’abbigliamento. Il brand di alto livello si identifica con il prodotto, non c’è bisogno che il logo lo presenti, bastino esempi come Bottega Veneta e Fabiana Filippi.
Come si può rendere oggettivo il tema del Made in Italy? Semplicemente facendo vedere quanto tempo ci vuole per fare un capo fatto bene. La qualità richiede tempo e cura.
- La sostenibilità può essere un driver di crescita per il Made in Italy?
Sicuramente sì, sia da un punto di vista ambientale che sociale.
Per quanto riguarda la responsabilità ambientale, nella mia azienda tutta l’energia utilizzata è prodotta dal sole, perciò la produzione dei miei capi ha un impatto ambiente pressoché nullo.
Per quanto concerne la responsabilità sociale, essendo la maggior parte delle mie lavoratrici donne, viene data la giusta attenzione alle fasi più delicate della loro vita quali la gravidanza e i primi anni della maternità. Durante la gravidanza vengono loro affidate le mansioni meno gravose e fino a 3 anni del bambino viene data loro l’opportunità di lavorare part-time, con orari consoni alla vita familiare.
- Qual è il ruolo dell’online nella promozione del Made in Italy?
“On line” ormai è in nostro modo di essere. E anche il Made in Italy non può sottrarsi a questo: l’Italia ha dei marchi affermati in tutto il mondo (es. Ferrari), e anche se rappresentiamo solo lo 0,8% della popolazione mondiale, abbiamo delle eccellenze in ogni settore, conosciute a livello planetario.
Tuttavia l’acquisto “on line” del made in Italy è ancora limitato, soprattutto nelle fasce di alto livello, ma credo che questo sia correlato anche al concetto che l’acquisto di un prodotto di pregio nel suo rituale della scelta, della prova e dell’acquisto racchiude in sé un’emozione alla quale il consumatore non vuole rinunciare.
Certo è che l’online rappresenta un trampolino di lancio per la promozione del Made in Italy, che intercetta oggi quella fascia giovanile che sarà domani il consumatore, speriamo evoluto, che sceglierà il prodotto di qualità, decidendo magari proprio di acquistarlo da casa.
- Il piccolo è ancora bello?
Il piccolo è bellissimo, ma è importante sapersi internazionalizzare, saper curare la propria immagine, poter conoscere altre aziende con cui condividere esperienze per crescere.
Nel settore dell’abbigliamento il proprietario dell’azienda è colui che sta per primo a testa china sulla macchina a produrre un capo. Questo certamente dà prodotti di altissima qualità, che è fondamentale saper proporre, esporre, vendere. E quindi il proprietario di azienda deve poi alzare la testa e assumere le vesti del manager che sa relazionarsi, che sa esporre in vetrina ciò che produce.
L’insegnamento che ho potuto trarre fin ora, nella mia giovane esperienza, è che si deve “Agire locale e pensare globale”… stare nella propria azienda guardando al mondo.
- L’azienda si trova in un distretto industriale?
L’azienda è collocata all’interno dell’Umbria Cachemire District.
- Come ritiene sia evoluto il distretto nel tempo?
L’Umbria ha un’antica storia di distretti: ne sono testimonianza dipinti e affreschi del Medioevo e del Rinascimento in cui vengono riprodotte tovaglie con il grifo perugino, marchio della tessitura umbra di quelle epoche.
Negli anni più recenti il distretto della maglieria è nato grazie a Luisa Spagnoli, un’azienda che ha dato lavoro a tanti piccoli laboratori esterni. Alcuni di questi sono cresciuti creando un loro brand.
Ad oggi noto più apertura e connessioni tra aziende anche distanti geograficamente.
Molte fasi della lavorazione possono essere seguite ed elaborate senza doversi spostare, quindi affidare una fase produttiva ad altri laboratori distanti è semplice.
La discriminante che premia sempre più è la qualità del lavoro di un laboratorio esterno e i tempi di consegna anziché la vicinanza.
- Quali sono i plus dell’appartenere ad un distretto industriale?
Appartenere ad un distretto industriale significa per le aziende avere più occasioni di trovare personale specializzato e poter anche attivare nelle scuole e università locali percorsi di studio attinenti al settore.
- Quali sono le attività svolte insieme alle altre aziende del distretto?
Uno tra i più interessanti progetti a cui abbiamo partecipato è stato TUN (Tessile Umbro Naturale), che ha coinvolto allevatori, università e aziende tessili.
L’obiettivo è stato quello di mettere insieme agricoltori ed allevatori. Dalla lavorazione di canapa e alpaca insieme si è ottenuta una nuova fibra: il filo con il quale è stato realizzato il tessuto. La nostra azienda è entrata in gioco nella fase finale nella quale abbiamo utilizzato il tessuto ottenuto per produrre un campionario ‘100% Made in Umbria’.
- Ogni quando si svolgono i momenti di scambio/incontro con le altre aziende?
Vi sono continui scambi tra aziende perché questa è la nostra linfa vitale. E’ inutile essere fossilizzati in posizione di difesa del proprio know-how, si deve favorire la collaborazione, perché solo dal confronto nascono nuove idee. La differenza la fanno le imprese che sanno creare partnership, ad esempio per poter creare prodotti con mix di tessuti è indispensabile affidarsi ad altri professionisti con competenze tecniche specifiche.
- Cosa apprezza della normativa sul Made in Italy?
Per avere una normativa sul Made in Italy bisogna innanzitutto avere dei governanti convinti di crearla, e ovviamente la volontà e l’impegno degli imprenditori italiani affinché si faccia un Made in Italy serio, non inteso come solo il 10% di lavorazione in Italia, escamotage utilizzato per poter etichettare un capo come “Made in Italy”.
- Cosa le piacerebbe consigliare alle nuove aziende che desiderano sviluppare un modello full Made in Italy?
Come ho già detto il fondamento deve essere “agire nella propria azienda guardando al mondo”.
Ciò vuol dire che l’imprenditore deve avere conoscenza profonda della propria realtà, relazionarsi con operai, tecnici, in una parola “essere operativo”, perché solo così acquisisce credibilità, in primis da chi lavora per lui e con lui. Forte di questo potrà relazionarsi con il mondo, sempre in trasparenza, vendendosi per ciò che si è.
Vedi quale esempio in negativo il caso Moncler e l’impatto che ha avuto la vicenda sui titoli di borsa dell’azienda. Perché a “creare la fama” sono i tuoi prodotti, che parlano di te. Dal mio punto di vista occorre puntare tantissimo sulla creatività dei giovani, sulla loro energia vitale vedendo nella giovane età non un punto di debolezza ma di forza.