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23.11.16

#LoveOurPlanet The Cleanest Black Friday by Patagonia: 100% today, 1% everyday

Il 20 novembre, in vista del Black Friday, Patagonia ha pubblicato sul suo blog ambientalista la seguente lettera del CEO, a testimoniare l'impegno dell'azienda statunitense dello sportswear per la tutela dell'ambiente con questo claim: 100% oggi, 1% tutti i giorni

"Mancano pochi giorni al Black Friday, la giornata che celebra il consumismo pre-natalizio più sfrenato. Mentre tutti pensano con generosità ai doni per amici e parenti, ci piacerebbe che i nostri clienti mostrassero il loro amore verso il nostro Pianeta: merita anch’esso un bel regalo benché per ora continui puntualmente a ricevere il solito famigerato carbone.
Quest’anno Patagonia ha deciso di devolvere il 100% delle vendite a livello globale effettuate nel giorno del Black Friday sia nei propri punti vendita che sul proprio sito Web alle organizzazioni ambientaliste che operano nell’ambito delle comunità locali per tutelare aria, acqua e suolo a beneficio delle generazioni future. Spesso si tratta di gruppi poco noti ed esterni ai circuiti tradizionali, che si battono in prima linea con iniziative e azioni concrete per fare la differenza. Il supporto che anche noi di Patagonia possiamo offrire è oggi più importante che mai.
Nei nostri negozi e sul nostro sito Web forniremo informazioni su come contattare questi gruppi e prendere parte alle iniziative organizzate nelle varie comunità locali, non solo nel giorno del Black Friday, ma anche nel resto dell’anno.
Da decenni siamo fermamente convinti, e lo abbiamo dimostrato concretamente, che avere a cuore le sorti del Pianeta non va contro il successo negli affari. Siamo costantemente alla ricerca di modi efficaci per ridurre ulteriormente l’impronta ambientale delle nostre attività produttive, inclusa la dipendenza della nostra stessa azienda dai carburanti fossili. Sovvenzioniamo inoltre piccole organizzazioni di attivisti ambientalisti devolvendo loro l’1% del totale delle nostre vendite: ad oggi abbiamo raggiunto la cifra di 74 milioni di dollari in donazioni.
In questo momento storico di dissidi e divisioni, crediamo sia importante coinvolgere maggiormente i nostri clienti, che come noi amano i luoghi selvaggi e incontaminati ancora esistenti sulla Terra, offrendo loro l’opportunità di entrare in contatto con coloro che lottano instancabilmente per tutelarli. Sappiamo per certo che, se non agiremo in modo audace e coraggioso, con ogni mezzo a nostra disposizione, i gravi cambiamenti climatici, l’inquinamento di aria e acqua, l’estinzione delle specie e l’erosione del suolo avranno delle conseguenze inevitabili e definitive. Le minacce che gravano sul nostro Pianeta riguardano tutti, a prescindere dall’appartenenza politica o etnica, in qualsiasi parte del globo. Abbiamo tutti e tutto da guadagnare se riusciremo a preservare un ambiente pulito e salubre, lasciandolo in eredità ai nostri figli, ai nostri nipoti e a tutti coloro che verranno dopo di noi.
Diventando membri attivi delle comunità in cui viviamo, nel nostro piccolo tutti possiamo influenzare concretamente il cambiamento: tutelando il cibo che noi e i nostri figli mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo e i luoghi naturali che più amiamo. E questo impatto può andare ben oltre le realtà locali, arrivando a toccare le più importanti priorità globali: facciamo sentire la nostra voce per difendere politiche e leggi in grado di ridurre le emissioni di CO², di creare una moderna economia che investa nelle energie rinnovabili e, soprattutto, in grado di garantire che i nostri governi rispettino fino in fondo gli impegni presi nei confronti degli obiettivi cruciali definiti dall’Accordo sul clima approvato a Parigi nel 2015.
Per noi di Patagonia, crescere come azienda significa continuare a proteggere ciò che amiamo. Proseguiremo nella lotta con rinnovata determinazione e senza perdere tempo, utilizzando tutti i mezzi a nostra disposizione per il bene del paese, del pianeta e dei luoghi e delle creature selvagge che hanno bisogno della nostra voce.
Siamo qui e continueremo a combattere. Il 100 % nel giorno del Black Friday, l’1% tutti i giorni. #LoveOurPlanet"

3.11.16

Before The Flood #LeonardoDiCaprio


Leonardo Di Caprio explored the topic of climate change and discovers what must be done today to prevent catastrophic disruption of life on our planet.

26.10.16

Vi presento flavialarocca e Fera Libens!

Venerdì 20 ottobre, in occasione della 2 giorni sulla sostenibilità a Milano, Milano Fashion LibraryThe LIFEstyle Journal hanno ospitato un workshop sulla moda sostenibile patrocinato dalla Camera Nazionale della Moda Italiana presso la Biblioteca della Moda di Via Alessandria 8 a Milano.
E' stata un'occasione per conoscere meglio due start-up di moda sostenibile Full Made in Italy: flavialarocca e Fera LibensVe le presento!


flavialarocca



Founder: Flavia La Rocca
Nata nel 1985 a Roma, Flavia La Rocca è la fondatrice e designer del brand che porta il suo nome, flavialarocca.
Dopo una Laurea in “Scienze della Moda e del Costume” presso l’università “ La Sapienza” di Roma, nel 2007 si trasferisce a Milano dove inizia la sua carriera in prestigiosi uffici stampa quali Blumarine, Valentino, Vivienne Westwood e Prada.
Esperienza, conoscenze e una forte passione, portano Flavia a cominciare a lavorare sul suo marchio alla fine del 2011.
L’idea di abiti modulari e la sostenibilità sono le fondamenta sulle quali costruisce il brand che vuole essere un’azienda responsabile, etica e moderna.

“Creo abiti che si prestano al gioco della moda , in maniera responsabile, dinamica e contemporanea” - Flavia 

Brand: flavialarocca
Le collezioni sono pensate e composte da moduli che attraverso zip nascoste possono essere ‘smontati e rimontati’ o indossati singolarmente creando infinite combinazioni e look.
Moduli della stessa taglia anche di stagioni diverse possono essere mixati tra loro creando un guardaroba senza fine lasciando a chi li indossa la possibilità di interpretarli e di rinnovarli ogni stagione e a seconda dello stile e delle esigenze
Nel 'The Folded Looks' nello spazio di una small bag di 30x35cm ci sono 3 moduli, un cintino e 2 bretelle che creano 8 look diversi.

Flavia, quando e come è nata l'idea?
E' nata nel 2012 , su un volo Milano-Roma. Ho da sempre giocato con l'abbigliamento e conosciuto bene come si crea e costruisce un capo. Ho pensato semplicemente alle esigenze delle donne di oggi.
Credo in una moda contemporanea e democratica che debba stare a passo con i tempi e le esigenze di una donna che ha sempre meno tempo e meno spazio, ma che ha voglia e/o bisogno di esprimersi al meglio anche nell'abbigliamento.
Credo in una donna che ha voglia di giocare con l'abbigliamento creandosi il suo guardaroba senza fine.
  
Perché hai deciso di lavorare nella moda sostenibile?
Ho sempre avuto un interesse ed un attenzione alla sostenibilità a livello personale, appena ho potuto l'ho tradotta nel mio lavoro.
Credo molto in una moda sostenibile , credo sopratutto che ora con le tecnologie e le nuove possibilità che abbiamo a disposizione non ci si possa esimere dal fare un prodotto che limiti gli sprechi, l’impatto ambientale e sia realizzato in maniera etica per questo ho deciso di utilizzare tessuti riciclati (provenienti dalla lavorazione delle bottiglie di plastica), rigenerati (nati da vecchi tessuti rilavorati) o 100% naturali, e di produrre tutto in Italia limitando al minimo i trasporti e quindi le emisisoni di Co2 avvalendomi di laboratori che io stessa visito e conosco. La mia idea di sostenibilità va oltre arrivando anche a comprendere il concetto di base del marchio in sè, la modularità. La possibilità infatti di utilizzare lo stesso capo in modi diversi fa si che vengano risparmiati tessuto, materie prime ed energia impiegate per la realizazzione di capi diversi e che si allunghi il ciclo di vita del prodotto.

Quali sono le difficoltà che incontri nella moda sostenibile?
La difficoltà di avere a volte scelte limitate nei materiali a livello di colore e fattibilità.
Per il resto è mio interesse e mia scelta selezionare i fornitori sapendo che producano in modo etico potrei dire che rispetto ad un brand che non se ne preoccupa pago di più la mia manodopera, ma questa per me non è una difficoltà è una scelta e non potrei fare altrimenti.

Cosa ti motiva?
La mia forte passione e la voglia di poter essere anche se in piccola parte ora parte di un sistema che può cambiare e sta cambiando. Responsabile, Sostenibile, Etico. 

Progetti per il futuro?

Continuare a costruire il futuro del marchio tenendo ben fermi e saldi i valori ed il concept e continuare a veicolare informazioni importanti riguardo la produzione etica e sostenibile affinchè il consumatore finale sappia valutare ogni suo acquisto riconoscendo dietro il prodotto che compra chi ci ha lavorato, in quali condizioni e a quale costo.






Fera Libens



Cofounder: Francesco Virtuani
Laureato in Economia e Commercio (l. quadriennale) e in Storia dell’Arte (l. triennale), nel 2013 ha conseguito un dottorato di ricerca in Design presso il Politecnico di Milano. Ha lavorato per diversi anni nel marketing del largo consumo in qualità di product manager per marchi noti e in seguito ha collaborato con enti culturali e istituzioni universitarie nell’ambito della gestione e della didattica dei beni culturali.

Brand: Fera Libens
 Calzature di design realizzate in materiali di origine non animale, lavorate in maniera tradizionale da artigiani italiani.

Francesco, quando e come è nata l'idea?
L'idea nasce un paio di anni fa sulla base di riflessioni legate alla scelta di non mangiare carne.

Perché hai deciso di lavorare nella moda sostenibile?
Perché penso si possa vivere in maniera più consapevole senza per questo fare troppe rinunce, in termini di qualità e estetica del prodotto. Ritenevo che il mondo delle calzature fosse un buon terreno per un progetto simile.  

Quali sono le difficoltà che incontri nella moda sostenibile?
Difficoltà di far capire il prodotto, di farne percepire la qualità reale.

Cosa ti motiva? 
L'idea di dare un contributo, anche se piccolo, ad uno sviluppo di tipo sostenibile; avere per lavoro una attività stimolante, da indipendente.















Re-Invention: apply to the new Global Change Award by October 31!



On October 18 Re-Invention, a unique event organized by Orange Fiber at Acquario Civico in Milan with the support of H&M Foundationand Accenture was the occasion to discuss about Responsible Innovation and how to re-invent fashion crafting new business models.

The event was introduced by H&M Foundation, founder of the Global Change Award, the five winners of the Global Change Award 2015 and Accenture.
The Round Table was moderated by Danilo Mazzara (Accenture) and included the following panelists: 
- Francesca Romana Rinaldi - Bocconi & Milano Fashion Institute
- Filippo Servalli - Radici Group
- Giusy Bettoni - C.L.A.S.S. 
- Anna Pellizzari - Material Connexion
- Alessandra Guffanti - GGI - Sistema Moda Italia 
- Daniel Tocca - Re-Bello
Photo credits: Luca Giugliano 

Sharing ideas, experience and knowledge!

Photo credits: Luca Giugliano 

H&M Foundation reminded the new deadline for the applications to the new Global Change Award set on 31 October 2016.

Apply here with your idea on how to make fashion circular 
for a chance to the €1 million grant: 


18.10.16

Jersey Full Made In Italy @Cardinalini Spa: a nice story to share!



Marco CardinaliniConsigliere Generale di Confindustria e Consigliere del Gruppo Tessile Abbigliamento Umbria, nasce da una famiglia di imprenditori che fondarono la Cardinalini & C. Spa nel 1963. Ancor prima dell’ufficializzazione del cambio generazionale, mediante il Patto di famiglia nel 2011, già nel 2004 Marco subentrava nell’azienda con la gestione di un nuovo cliente: una nota griffe francese che costituisce ancora oggi il principale cliente della Cardinalini & C. Spa. L’ingresso in punta di piedi nella Maison Parigina, il confronto con un mondo giovane e dinamico, con stilisti e persone chiave in ambito aziendale, molti delle quali al di sotto dei 40 anni, hanno consentito a Marco di fare della sua giovane età un punto di forza, un trampolino per relazionarsi e confrontarsi “alla pari” con altri imprenditori.


Dall’intervista emerge un concetto di Made in Italy legato all’Italia come luogo di progettazione e produzione in cui la mano è l’elemento centrale. La mano è prosecuzione della mente è detentrice del sapere, e come parte del corpo è plasmatrice di quella conoscenza. Il modo migliore per raccontare il Made in Italy è far vedere come quelle mani lavorano, come il prodotto è stato fatto.


Le piccole aziende, infatti, sono ancora oggi realtà bellissime, custodi di sapere e tradizioni, tuttavia fanno fatica ad agire nel mondo attuale in quanto mancano delle risorse e di una mentalità necessaria per divenire innovative ed internazionali. La collaborazione e la creazione di partnership è divenuta oggi una determinante per il successo. La condivisione di competenze, risorse, know-how può portare solo ad un accrescimento. Da questo punto di vista, il distretto gioca un ruolo essenziale.

A tal proposito il distretto umbro, per quanto caratterizzato da una serie di difficoltà quali l’isolamento geografico, ha saputo puntare sulle sue eccellenze, creando legami lungo tutta la filiera del tessile. Occorre tornare a valorizzare il territorio che è il bacino di risorse e competenze da cui tutto parte.
La chiave di volta è la qualità del Made in Italy. Attuare una strategia di contenimento dei costi forzata, volendo al contempo mantenere il marchio Made in Italy, si rivela controproducente: si troveranno sempre concorrenti più competitivi e l’immagine del prodotto verrà allo stesso tempo intaccata. Esempio sono le molte aziende che in passato avevano delocalizzato la produzione e hanno deciso oggi di tornare in Italia dove non trovano più gli attori con i quali erano solite operare, per la chiusura di molte piccole imprese all’interno dei loro distretti.
A tal fine la formazione delle nuove generazioni è un elemento chiave: bisogna tornare a trasmettere il “sapere” e il “saper fare” puntando su nuovi giovani talenti italiani.

  1. Cosa significa per lei “Made in Italy”?
Si può delocalizzare la produzione in qualsiasi parte del mondo, ma non si può delocalizzare la trasmissione del sapere e la messa in opera di quel sapere. Quello che fa la differenza sono le “persone”, la tradizione di quelle mani che lavorano e creano il prodotto. Il grande potenziale italiano è la tradizione e il gusto del bello, dei quali la nostra cultura è pregna. Acquistare un capo Made in Italy è acquistare un po’ di quella tradizione, è come se si potesse far proprio un pezzetto della “dolce vita”. Per me, quindi, il Made in Italy è un prodotto, un manufatto che riesce a trasmettere questi valori al consumatore finale.
  1. La sua azienda ha deciso di mantenere la produzione in Italia? 
Nel 1989, spinti dalla politica di contenimento dei prezzi di un nostro cliente, abbiamo delocalizzato la sua produzione in Ungheria. Dopo 5 anni ci siamo resi conto che la ricerca del ribasso dei prezzi non ci apparteneva perché andava a discapito di quei valori come tradizione e qualità che sono a fondamento della nostra azienda, e così abbiamo deciso di rientrare in Italia. Abbiamo perso il cliente ma non la nostra identità: è stata una scelta difficile ma alla fine ci ha premiati.
Inoltre, mantenere la produzione in Italia ci ha dato la possibilità di sviluppare nuove competenze. Infatti, nella nostra realtà umbra la mia azienda è situata in un grandissimo distretto di maglieria, ma non di confezionisti, quindi in questo scenario abbiamo dovuto interiorizzare tante competenze.
Questo se da un lato ha costituito uno svantaggio perché l’intero ciclo produttivo è all’interno dell’azienda, con un costo organizzativo molto elevato, per converso è un fattore positivo sia come stimolo all’acquisizione costante di nuove competenze, sia nei confronti del cliente. Il cliente infatti trova in noi, in un’unica azienda, la possibilità di trasformare il disegno e l’ispirazione di uno stilista in un prodotto reale.
Pur nell’autonomia produttiva, rimane però fondamentale la collaborazione e il legame tra i vari anelli della filiera produttiva, perché un buon prodotto è possibile solo se si hanno materie prime di altissimo livello, dalla filatura alla tintura, alla tessitura. E questo è il vero fattore competitivo del Made in Italy: una filiera ben salda, con degli anelli che si aiutano tra di loro.
In questa ottica anche noi ultimamente abbiamo potenziato la collaborazione con i fornitori, con i quali stiamo ideando nuovi articoli e siamo alla ricerca di nuovi materiali e nuove strutture, in linea con la tendenza attuale del mercato a mixare tra di loro più materiali. Da qui nasce la collaborazione con pelletterie, maglifici e studi di progettazione, che per noi produttori di jersey costituisce una fonte d’informazioni, di confronto e condivisione del know-how.
  1. Cosa pensa dell’attuale processo di reshoring che alcune aziende italiane stanno implementando?
Molte aziende sono rientrate in Italia stimolate da un consumatore attento, non disposto a comprare un prodotto con etichetta “Made in China”. Tuttavia queste aziende al loro rientro hanno trovato un panorama diverso, frutto di una crisi che dal 2000 ha condotto molte piccole imprese alla chiusura. In tal modo è andato perso molto dell’artigianalità, ed insieme ad esso importanti competenze, strategiche per la produzione “Made in Italy”.
  1. Come è possibile proteggere e sviluppare le competenze artigianali che caratterizzano la produzione Made in Italy?
Come sempre si deve ripartire dalla base, dalle nuove generazioni. Dobbiamo ricominciare ad avere stilisti ‘Made in Italy’. Prima c’erano Armani, Valentino, che hanno permesso di creare il mito della moda italiana, oggi gli ultimi stilisti italiani sono Dolce & Gabbana e Alessandro Michele (Gucci). Bisogna quindi ripartire dalla formazione, dal potenziamento delle scuole, per poter dare più chance a stilisti emergenti che conoscono il prodotto italiano.
E’ un po’ l’operazione che è stata fatta con il “Cashmere District Award”, dove sono stati portati in Umbria gli aspiranti stilisti della “Central Saint Martins” che hanno lavorato con le aziende italiane e con il cashmere, mettendoci tutta la loro creatività, andando fuori dagli schemi, pensando ad un cashmere misto a polimeri, ad esempio.
Magari se questi stilisti avranno l’opportunità di emergere, ricordandosi dell’esperienza umbra, verranno a sviluppare parte delle loro collezioni con il cashmere prodotto nella mia regione!
  1. Qual è il livello di consapevolezza del consumatore (italiano vs straniero)? Come si può rendere più oggettivo il percepito della qualità e della creatività Made in Italy?
Le fasce alte dei consumatori si distinguono proprio per la consapevolezza, a  prescindere che sia un consumatore italiano o straniero. Anzi quello che si nota oggi, paradossalmente, è che sono sempre più gli stranieri a parlare e a ricercare il made in Italy. Ad esempio, alcuni dei miei clienti hanno ideato delle linee Asian fit, con vestibilità studiata per i mercati asiatici.
Chi sa apprezzare il Made in Italy ha piena consapevolezza della cultura che è dietro quel prodotto, sa riconoscere un vero cashmere da un misto viscosa.
Non a caso le più grandi griffe non vogliono loghi sui loro capi d’abbigliamento. Il brand di alto livello si identifica con il prodotto, non c’è bisogno che il logo lo presenti, bastino esempi come Bottega Veneta e Fabiana Filippi.
Come si può rendere oggettivo il tema del Made in Italy? Semplicemente facendo vedere quanto tempo ci vuole per fare un capo fatto bene. La qualità richiede tempo e cura.
  1. La sostenibilità può essere un driver di crescita per il Made in Italy?
Sicuramente sì, sia da un punto di vista ambientale che sociale.
Per quanto riguarda la responsabilità ambientale, nella mia azienda tutta l’energia utilizzata è prodotta dal sole, perciò la produzione dei miei capi ha un impatto ambiente pressoché nullo.
Per quanto concerne la responsabilità sociale, essendo la maggior parte delle mie lavoratrici donne, viene data la giusta attenzione alle fasi più delicate della loro vita quali la gravidanza e i primi anni della maternità. Durante la gravidanza vengono loro affidate le mansioni meno gravose e fino a 3 anni del bambino viene data loro l’opportunità di lavorare part-time, con orari consoni alla vita familiare.
  1. Qual è il ruolo dell’online nella promozione del Made in Italy?
“On line” ormai è in nostro modo di essere. E anche il Made in Italy non può sottrarsi a questo: l’Italia ha dei marchi affermati in tutto il mondo (es. Ferrari), e anche se rappresentiamo solo lo 0,8% della popolazione mondiale, abbiamo delle eccellenze in ogni settore, conosciute a livello planetario.
Tuttavia l’acquisto “on line” del made in Italy è ancora limitato, soprattutto nelle fasce di alto livello, ma credo che questo sia correlato anche al concetto che l’acquisto di un prodotto di pregio nel suo rituale della scelta, della prova e dell’acquisto racchiude in sé un’emozione alla quale il consumatore non vuole rinunciare.
Certo è che l’online rappresenta un trampolino di lancio per la promozione del Made in Italy, che intercetta oggi quella fascia giovanile che sarà domani il consumatore, speriamo evoluto, che sceglierà il prodotto di qualità, decidendo magari proprio di acquistarlo da casa.
  1. Il piccolo è ancora bello?
Il piccolo è bellissimo, ma è importante sapersi internazionalizzare, saper curare la propria immagine, poter conoscere altre aziende con cui condividere esperienze per crescere.
Nel settore dell’abbigliamento il proprietario dell’azienda è colui che sta per primo a testa china sulla macchina a produrre un capo. Questo certamente dà prodotti di altissima qualità, che è fondamentale saper proporre, esporre, vendere. E quindi il proprietario di azienda deve poi alzare la testa e assumere le vesti del manager che sa relazionarsi, che sa esporre in vetrina ciò che produce.
L’insegnamento che ho potuto trarre fin ora, nella mia giovane esperienza, è che si deve “Agire locale e pensare globale”… stare nella propria azienda guardando al mondo.
  1. L’azienda si trova in un distretto industriale? 
L’azienda è collocata all’interno dell’Umbria Cachemire District.
  1. Come ritiene sia evoluto il distretto nel tempo? 
L’Umbria ha un’antica storia di distretti: ne sono testimonianza dipinti e affreschi del Medioevo e del Rinascimento in cui vengono riprodotte tovaglie con il grifo perugino, marchio della tessitura umbra di quelle epoche.
Negli anni più recenti il distretto della maglieria è nato grazie a Luisa Spagnoli, un’azienda che ha dato lavoro a tanti piccoli laboratori esterni. Alcuni di questi sono cresciuti creando un loro brand.
Ad oggi noto più apertura e connessioni tra aziende anche distanti geograficamente.
Molte fasi della lavorazione possono essere seguite ed elaborate senza doversi spostare, quindi affidare una fase produttiva ad altri laboratori distanti è semplice.
La discriminante che premia sempre più è la qualità del lavoro di un laboratorio esterno e i tempi di consegna anziché la vicinanza.
  1. Quali sono i plus dell’appartenere ad un distretto industriale? 
Appartenere ad un distretto industriale significa per le aziende avere più occasioni di trovare personale specializzato e poter anche attivare nelle scuole e università locali percorsi di studio attinenti al settore.
  1. Quali sono le attività svolte insieme alle altre aziende del distretto? 
Uno tra i più interessanti progetti a cui abbiamo partecipato è stato TUN (Tessile Umbro Naturale), che ha coinvolto allevatori, università e aziende tessili.
L’obiettivo è stato quello di mettere insieme agricoltori ed allevatori. Dalla lavorazione di canapa e alpaca insieme si è ottenuta una nuova fibra: il filo con il quale è stato realizzato il tessuto. La nostra azienda è entrata in gioco nella fase finale nella quale abbiamo utilizzato il tessuto ottenuto per produrre un campionario ‘100% Made in Umbria’.
  1. Ogni quando si svolgono i momenti di scambio/incontro con le altre aziende? 
Vi sono continui scambi tra aziende perché questa è la nostra linfa vitale. E’ inutile essere fossilizzati in posizione di difesa del proprio know-how, si deve favorire la collaborazione, perché solo dal confronto nascono nuove idee. La differenza la fanno le imprese che sanno creare partnership, ad esempio per poter creare prodotti con mix di tessuti è indispensabile affidarsi ad altri professionisti con competenze tecniche specifiche.
  1. Cosa apprezza della normativa sul Made in Italy?
Per avere una normativa sul Made in Italy bisogna innanzitutto avere dei governanti convinti di crearla, e ovviamente la volontà e l’impegno degli imprenditori italiani affinché si faccia un Made in Italy serio, non inteso come solo il 10% di lavorazione in Italia, escamotage utilizzato per poter etichettare un capo come “Made in Italy”.
  1. Cosa le piacerebbe consigliare alle nuove aziende che desiderano sviluppare un modello full Made in Italy?
Come ho già detto il fondamento deve essere “agire nella propria azienda guardando al mondo”.
Ciò vuol dire che l’imprenditore deve avere conoscenza profonda della propria realtà, relazionarsi con operai, tecnici, in una parola “essere operativo”, perché solo così acquisisce credibilità, in primis da chi lavora per lui e con lui. Forte di questo potrà relazionarsi con il mondo, sempre in trasparenza, vendendosi per ciò che si è.
Vedi quale esempio in negativo il caso Moncler e l’impatto che ha avuto la vicenda sui titoli di borsa dell’azienda. Perché a “creare la fama” sono i tuoi prodotti, che parlano di te. Dal mio punto di vista occorre puntare tantissimo sulla creatività dei giovani, sulla loro energia vitale vedendo nella giovane età non un punto di debolezza ma di forza.

12.10.16

Bio Fashion @ Festival Della Crescita

Bio-Fashion will be at Festival Della Crescita in Milan at Palazzo delle Stelline on October 14, h11-13 to talk about Responsible Fashion
Here are the speakers of the round table that will be managed by Francesco Morace:
- Lapo Baglini, Polimoda
- Claudio Marenzi, Herno
- Francesca Romana Rinaldi, Università Bocconi and Milano Fashion Institute
- Salvo Testa, Università Bocconi 
See you there!


27.9.16

5.6.16

Youth Fashion Summit & Copenaghen Fashion Summit 2016: #restartfashion

Almost a month already passed by since we came back from the wonderful and challenging experience of the Youth Fashion Summit and Copenhagen Fashion Summit 2016.
Working with my group on SDG 4 & 5 :)
Having grown up with greater awareness of environmental issues than any generation, today's youth represent the single best hope for the implementation of sustainable practices in fashion and the wider society. During Copenhagen Fashion Summit, the more than 100 students from across the globe who took part in this year's Youth Fashion Summit presented their ideas. Milano Fashion Institute was the Italian representative at the Summit. The YFS was organized by Danish Fashion Institute and the Copenhagen School of Design and Technology (KEA) in collaboration with other leading Danish design schools.
On 25 September 2015, the 193 members of the UN General Assembly adopted 17 Sustainable Development Goals (SDGs) that will dictate the global development agenda until 2030. The Youth Fashion Summit, held in the two days prior to Copenhagen Fashion Summit, explored how the SDGs can represent opportunities for companies to align their own sustainability goals with broader societal aims.
Prior to the summit, participating students attended seven webinars with various themes ranging from new business models and systemic thinking to CSR communication and slow fashion, enlightening them about various aspects of sustainability – and unsustainability – in the industry.

MFI students at Youth Fashion Summit 2016 - pictures by Gianluca Mazzarolo, GM Creative Studio


I am happy to have contributed to the making of the Youth Fashion Summit Manifesto — 7 Demands for The Fashion Industry, presented at the Copenhagen Fashion Summit, 12 May 2016

1. As a group of CEOs, business and opinion leaders, academics and students, would you be here today without equal access to education? As inheritors of your roles, we demand empowerment and education of workers and consumers.
We realise you are very intelligent and influential. But you are kind of stuck in a system that is not really working anymore. So, we want to present our desired future.
In 2030, the fashion industry will have blended the line between work and education. Government, businesses and media will have created a positive symbiotic partnership that encourages the wellbeing of all it touches. With an online learning platform, we will be able to train employees, allowing them to build their technical and personal skills. It will have a positive effect on employee contentment and overall productivity. This platform will be incentivised by governments and employed by businesses.
Moreover, we believe that education should not just involve the makers but also the wearers. The media has a huge impact and so does technology and innovation!
Government and businesses can, together with the media, educate and cultivate behavioural change amongst consumers through their influence and widespread reach.  This will create a feedback loop that in turn feeds back to the business.
With such an open system, education both within and across cultures will allow empowerment to be possible for all. I hope we have empowered you to join us on this journey!
2. As inheritors of your roles, we demand that the fashion industry takes drastic and immediate action towards implementing closed-loop water systems to ensure that the industry is not dependent on fresh water as a resource.
According to the UN, without immediate action from the fashion industry, clean water will no longer be an accessible resource by 2030 for half of the world’s population.
This is not acceptable. Instead, we imagine a future where the fashion industry is no longer the second biggest water consuming industry. We imagine a world where there is full awareness of the chemicals in our fresh water and their effects on 9 billion people.
We also imagine a drastic shift in how we use and value water, creating a culture that both respects and learns from the value of our resources.
The technology of water recycling is out there, so let us implement it today.
3. As inheritors of your roles, we demand a long-term investment in the well-being of the community as a whole, through: fair wages; improving infrastructure; ensuring food security.
I would like to tell you the story of a man that I am pretty sure you know already. His name? Brunello Cucinelli. Cucinelli is the living proof that creating a corporate culture that encompasses the local community is possible; as a matter of fact, it is happening as we speak — his commitment managed to revitalise an entire Italian village. Now, the community is part of the industry and the industry is part of the community. Working hand in hand and mutually gaining — they have not only increased the quality of the final product but, ultimately, the quality of living.
In this new model that we consider should be the new normal, community and industry thrive together by respecting the hands and hearts involved in the garment's life cycle.
4. What do capital, profit and success mean to you? What if, by 2030, they meant something completely different? As inheritors of your roles, we demand you all to collaborate as active investors in a fashion industry where capital, profit and success are redefined and measured in more than monetary value.
By 2030, these concepts must be measured side-by-side with a holistic view of wellbeing, social security and global health.
The priority must be on collaboration, on knowledge sharing, on rethinking where we place our value and a lowering of the barriers between people, companies and countries which halt the flow of progress.
We want you to imagine a future wherein success can be measured not just through financial gains, but equally through the sharing and increasing of knowledge, technological innovation and social and environmental progress.
5. As inheritors of your roles, we demand that by 2030 fashion is no longer the second-largest polluting industry in the world.
You — global policy makers — must work together with NGOs, brands and corporations to create and implement legislation for no more land abuse. Invest in research and innovation.
It is vital that we take responsibility in restoring the air, water and land that we have altered.
Furthermore, we must create more opportunities for life. To let this world flourish, we must stop taking that which we cannot restore.
We are running out of resources.
6. As the next generation and inheritors of your roles, and our waste, we demand that designers, brands and governments collaboratively invest in the recycling technology and infrastructure that is needed to secure and enable a circular system. 
Products, fabrics and fibres will be infinitely cycled within and across industries. Today’s textile waste is tomorrows textile resource.
We support the concept of mass balance and ask that brands give as much into the system as they take out. This encompasses the continual sourcing of recycled content and active collection of textiles. Government must support this through incentives and regulations, so that early adopters benefit from circular behaviour.
We want an industry that has zero waste practices embedded in its DNA and causes no unnecessary harm. This means a strategic cross-industry roadmap to eliminate post-industrial, pre-consumer and post-consumer waste.
We also demand that brands proactively support the system, by incorporating design for circularity as a driving philosophy in their work.
Our vision is a fashion world in 2030, where circularity is business as usual.
7. As inheritors of your roles, we demand economic consequences in order to reverse standards.
We need to reverse the profitability of being unsustainable. Sustainability should be rewarded. This is why we are addressing you, the companies, the governments, the game changers of tomorrow.
The world happiness report validates the notion that happiness does not increase with financial exponential growth. For this reason, our industry needs to look at other metrics of success.
We need to build a resilient infrastructure in order to create green cities.
In short, we are going to penalise reckless businesses and invest that money in sustainable fashion initiatives.
Through this, sustainability will be the standard in 2030. No one wants to be labelled as something negative, but in the future we want to expose the ones that are. Sustainability is the norm.
Our industry has to reward the people that are making a change.
The results of the YFS have been shared during the Copenhagen Fashion Summit on the main stage.


The theme of Copenhagen Fashion Summit 2016 was ‘responsible innovation’. Major sustainability challenges face us all and it is thereby immensely important for the fashion industry to continuously develop and improve the way it functions. 
To overcome these challenges, we need new solutions and new business models. With emphasis on responsible innovation Copenhagen Fashion Summit aimed to be a catalyst for change. 
In May 2016 Copenhagen gathered key players from the global fashion industry, who shared their knowledge and ideas on new and sustainable solutions, the hope is to inspire, motivate, and give tools to implement a sustainable mindset and create a brighter future for the fashion industry. 
MFI students with Renzo Rosso
MFI students with Marco Lucietti, Global Marketing Director ISKO
MFI speakers at CFS with Amber Valletta
MFI speakers at CFS with me :)
MFI students with Suzy Menkes
MFI students with Imran Amed, Business of Fashion 
MFI students & me at CFS
MFI students at CFS
Carlo Capasa at CFS 2016

The Youth Fashion Summit has been reported by The Business of Fashion as follows:

YFS students on main stage