Per capire meglio il legame tra moda bio e commercio equo e solidale (fairtrade) ho intervistato Paolo Pastore, direttore di Fairtrade Italia.
Ci può descrivere le attività del Consorzio Fairtrade?
Il Consorzio Fairtrade TransFair Italia fa parte di FLO (Fairtrade Labelling Organizations international), Federazione internazionale dei marchi di garanzia, che raggruppa attualmente 20 organizzazioni che operano in Europa, Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Messico. Flo e Fairtrade TransFair garantiscono che i prodotti che portano il marchio Fairtrade siano stati ottenuti senza causare sfruttamento e povertà nel Sud del mondo e siano stati acquistati secondo i criteri del commercio equo e solidale.
Cosa intendiamo esattamente per commercio equo e solidale?
Il commercio equo e solidale è una partnership commerciale fondata sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che cerca di stabilire una maggiore equità nel mercato internazionale. Contribuisce ad uno sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali ed assicurando i diritti dei produttori
e dei lavoratori svantaggiati del Sud del Mondo. Le organizzazioni del commercio equo, anche con l’aiuto dei consumatori, sono impegnate nel supporto ai produttori e in campagne finalizzate a cambiare le regole e le pratiche del commercio tradizionale.
Parliamo di cotone biologico. Che peso ha il cotone bio nel fairtrade?
Tutto il cotone fairtrade è prodotto e lavorato con criteri di basso impatto ambientale ma la certificazione biologica riguarda a tutt’oggi solo una piccola parte del mercato equo e solidale. Se consideriamo il cotone fairtrade nella coltivazione a livello mondiale circa il 50% è anche bio, mentre nel marcato italiano del prodotto finito e commercializzato la percentuale scende al 10%.
Fino al 2005 l’abbigliamento bio era rappresentato prevalentemente dai prodotti “etnici” con basso contenuto moda. Oggi il peso maggiore è rappresentato dalla categoria merceologica dell’abbigliamento jeans. La novità degli ultimi 5 anni è proprio l’ingresso sul mercato di numerosi jeans di marchi famosi e private labels.
Diversa la situazione dei prodotti fairtrade del food, dove la percentuale sale al 50%.
Qual è il peso dell’abbigliamento fairtrade sul totale?
Nel massmarket (supermercati ed ipermercati) dall’AI 2006-2007 all’AI 2009-2010 in Italia sono state vendute circa 35.000 paia di jeans fairtrade annui e la stessa quantità di T-shirt e similari per un totale di circa 70.000 capi annui. A valore queste quantità si traducono in un sell out al dettaglio di 1,75 milioni di euro (prezzo medio al dettaglio 25 euro).
Se si confronta questo valore con le vendite di tutti i prodotti fairtrade in Italia (circa 48 milioni nel 2009) si evince che le vendite di abbigliamento fairtrade pesano ad oggi solo il 3% sul totale, quota certamente in crescita nei prossimi anni.
Ad esempio la novità del 2009 è rappresentata dalle borse in cotone per la spesa: le vendite annue a volume sono rappresentate da 750.000 pezzi e si traducono in un valore stimato di 1.400.000 euro (prezzo medio 1,9 euro).
Cosa accadrà in Italia nei prossimi anni?
Sicuramente ci sarà un forte incremento dei volumi di prodotto fairtrade nei prossimi anni. Una grossa spinta sarà fornita dalla legge in vigore (con il ritardo di un anno) dal 1/1/2011, quando saranno disponibili borse di cotone fairtrade in tutti i supermercati ed ipermercati: Lidl le ha già e sono andate a ruba!
All'estero alcuni retailers trovano spazio da tempo delle linee nel mercato equo e solidale. In Italia questo non avviene: quali sono, secondo lei, le ragioni di questo ritardo italiano?
Si tratta di un problema atavico, ormai congenito in Italia che riguarda non solo il consumo di cotone organico ma anche i prodotti alimentari bio.
L’Italia è in ritardo per due problemi.
Da un lato la mancanza di un intervento pubblico per la sensibilizzazione verso i prodotti di utilità sociale. Ad esempio nel 2009 la Germania ha investito 1.5 milioni di euro in campagne di sensibilizzazione verso i prodotti bio e fairtrade. Il governo francese, invece, ha bandito delle gare d’appalto per forniture pubbliche di prodotti fairtrade: tute da lavoro con cotone fairtrade per postini francesi o il personale di Expedia in aeroporto.
In Austria il governo ha investito circa 250mila euro in campagne di informazione per spingere a utilizzare i prodotti certificati Fairtrade, mentre in Inghilterra il cantante dei Coldplay ha sostenuto il commercio equo e solidale indossando durante i concerti t-shirt in cotone prodotto da contadini africani. Da noi questo ancora non avviene.
L’altro motivo è la scarsa presenza di private labels con linee bio. In Germania Lidl ha lanciato una linea di abbigliamento esterno di cotone fairtrade andata a ruba; in Austria Spar (in Italia l’insegna si chiama Despar, Ndr) ha proposto una linea di tessile casa con cotone fairtrade per la PE2009). Anche Muji, che è ancora poco presente in Italia, ha lanciato una linea di biancheria da letto fairtrade.
L’Italia è in ritardo anche per i prodotti bio di marca: pensiamo alla Jack&Jones, brand danese, specializzato in denim maschile (presente in Italia tramite un monomarca a Faenza e tramite il canale e-commerce, Ndr) che utilizza cotone certificato bio, coltivato da piccole aziende agricole. Jack&Jones è appena entrato in Italia mentre è già molto diffuso in altri paesi.
Nel 2009 il valore al dettaglio del commercio equo (tutti i canali, Ndr.) nel territorio nazionale si aggira intorno ai 120 milioni di euro: superando questi due problemi il valore potrebbe duplicarsi a breve, seguendo l'esempio di Francia e Germania che in pochi anni hanno raggiunto rispettivamente i 255 milioni e 210 milioni di euro.
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